Ho finito di scrivere il mio nuovo romanzo.
Tanto per sottolineare il concetto, mi sono addirittura permesso di scrivere la parola "fine" dopo aver dato cinque a-capo, formattando la riga con l'allineamento al centro e conferendole la dignità del grassetto in corpo diciotto.
E adesso?
Adesso inizia il lavoro vero, quello che smette di poggiare su fantasia, inventiva e stile, assestandosi sull'autocritica con la leggerezza di un lottatore di Sumo.
La Revisione.
E qui si apre un ventaglio di opinioni praticamente infinito, ma badate bene: ho scritto "opinioni" e difficilmente uso le parole a casaccio.
Autori blasonati ed editor di fama hanno fornito indicazioni granitiche circa la percentuale di testo da tagliare durante la prima revisione del manoscritto, andando - secondo la mia opinione (sono quello che non vuole salire in cattedra, ricordate?) - ad allinearsi alle teorie di Sir Evans-Pritchard citate da Robin Williams nel film "L'attimo fuggente".
In effetti, come non è possibile valutare l'efficacia di una poesia basandosi su un sistema di assi cartesiani, dubito che imporsi una determinata percentuale di testo da tagliare all'interno del manoscritto possa migliorarlo tout-court.
Come sempre è questione di sensibilità e di quel mestiere che, laddove non sia presente nella cassetta degli attrezzi di un autore esordiente, può (anzi, dovrebbe) essere acquistato presso un rivenditore di fiducia chiamato Editor. Ma anche in questo caso occorre prestare attenzione, in quanto non sono pochi gli editor che basano la loro professione sull'applicazione talebana di regole matematiche che, sempre a mio personalissimo avviso, ben poco hanno da spartire con la fluidità di un testo.
Esaminando manoscritti con cadenza ormai quotidiana (Dio vi benedica, autori esordienti che riponete fiducia in Edizioni Jolly Roger) ho avuto la possibilità di constatare come la teoria del taglio a prescindere sia (posso dirlo?) una colossale stronzata.
Ci sono testi che meritano cesure impietose di interi capitoli, in quanto non aggiungono né tolgono niente all'opera, ma spesso mi imbatto in stralci che sarebbero totalmente cassabili, se non fosse per il loro apporto puramente estetico alla storia.
E, mi domando, cosa c'è di più importante di un refolo di bellezza autocelebrativa mentre si è immersi nella lettura di un buon libro?
Sempre nell'ottica dell'impiego mirato delle parole, nella frase precedente ho utilizzato "refolo" e "buon libro", non a caso.
Il buon libro è il presupposto basilare affinché l'autore possa concedersi un piccolo volo pindarico utile solo a distendere le labbra del lettore in un sorriso, che se già il libro non è un granché o è scritto con uno stile cervellotico e contorto, ogni digressione spinge il lettore fuori dalla trama in modo violento e del tutto inutile.
Il refolo, invece, è una componente squisitamente freudiana che mi riporta a quello che definisco come l'esemplificazione del concetto per antonomasia: American Beauty.
Nel film, bello o non bello lo lascio giudicare a voi, c'è una scena che non ha niente a che vedere con l'asse narrativo della pellicola e che, secondo i diktat dell'editing talebano, dovrebbe essere stata soppressa in fase di montaggio, o addirittura non aver mai fatto parte della sceneggiatura. Mi riferisco a quella manciata di secondi (tanti, in verità) nei quali viene mostrata una busta di plastica che danza in un angolo, sospinta e accompagnata da (appunto) un refolo di vento.
La storia non ha bisogno di quei tempi morti.
Ai fini della narrazione per immagini la busta danzante è totalmente superflua.
Kevin Spacey regge egregiamente il film senza aver bisogno di simili espedienti.
E allora perché ogni volta che vedo quel film rimango affascinato dalle evoluzioni di quel pezzetto di plastica come se stessi assistendo a una rappresentazione di Giselle?
Perché non premo l'avanti veloce per ritornare alle vicissitudini lolitiane del protagonista?
Semplice: perché è bello.
Perché è un fottuto fiore di poesia incastonato in una trama totalmente indifferente.
È utile alla storia? No!
Ma fa bene allo spettatore, così come brani descrittivi, riflessivi o poetici fanno bene al libro, senza che apportino o tolgano nulla alla trama.
Estetica.
Huysmans e la sua tartaruga con le pietre preziose incastonate sul carapace mi capirebbero, ma mi rendo conto di come un pensiero del genere possa risultare forse troppo romantico e, dal punto di vista imprenditoriale, decisamente controproducente a causa delle pagine in più di cui si comporrà il libro una volta graziata la scena inutile.
Ma se non mi lamento io che sono l'editore, perché dovrebbe farlo un editor che non si infila certo le mani in tasca per produrre i libro, o un autore che ha tutto l'interesse a far innamorare i lettori di sé?
Quindi tagliamo, sì, ma solo se dopo aver letto non ci viene da scuotere la testa per uscire dalla modalità incantata e tornare alla trama del libro, altrimenti passiamo oltre e congratuliamoci con noi stessi per essere riusciti a creare bellezza.
Perché è la bellezza che ci salverà, e non gli assi cartesiani di Evans-Pritchard, professore emerito.
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