Quanto sono importanti i dialoghi all'interno di un romanzo?
Tanto quanto è importante tenere viva l'attenzione del lettore che, per quanto si possa essere dei maghi della descrizione, senza uno scambio di battute capace di frammentare le linea della trama, tende immancabilmente a scemare dopo qualche pagina.
Come è ovvio supporre ci sono le eccezioni, ma appartengono più all'universo dei lettori che a quello degli autori: è un po' il caso del pubblico che adora film come Koyaanisqatsi in rapporto a chi, con una pellicola del genere, si addormenterebbe in sala dopo i primi cinque minuti.
Ma la domanda davvero importante è: quanto è difficile gestire dei buoni dialoghi capaci di avvincere il lettore senza fargli perdere la percezione di cosa stia succedendo e chi stia parlando in quel preciso momento?
È difficile.
Per chi non possegga predisposizione e soprattutto esperienza, è abbastanza difficile.
Il primo obiettivo da porsi è quello di rendere immediatamente riconoscibile la fase del dialogo, così da generare quel piccolo shock nel lettore, capace di salvarlo dall'effetto Domopack nel quale troppa descrizione rischia di precipitarlo.
No, non è così ovvio come sembra.
Logico che delle virgolette, dei caporali o una lineetta introducono la battuta di un personaggio, ma il lettore spesso ha bisogno di un cartello al neon che lampeggi nel buio con su scritto “Ehi! Qui c'è dell'azione! Tirati su a sedere per bene e preparati, perché sta per succedere qualcosa”.
La visuale periferica (quella che spazia sulla pagina o sulla doppia pagina come lo scandaglio di un'imbarcazione) deve percepire l'approssimarsi del dialogo, così da predisporre le ultime fasi di narrativa alla sua introduzione.
È una sorta di campanello d'allarme, ma se il lettore è abituato a una determinata forma tipografica per la gestione dei dialoghi, si accorgerà in anticipo di quello che sta per accadere e la sua attenzione subirà un picco positivo in attesa dell'azione vera e propria.
Ma questo prevede che l'autore gestisca gli scambi di battute impiegando una forma riconoscibile, sia tipograficamente che sintatticamente.
E qui si apre un dibattito annoso e mai sopito: qual è la forma corretta per scrivere un dialogo?
Ci sono fazioni agguerrite che difendono senza remore l'impiego dei cosiddetti “caporali”, i sostenitori delle virgolette, i talebani della lineetta e gli anarco-creativi del dialogo inserito nel testo a correre così, senza nessun segno, tanto il lettore capirà lo stesso che i protagonisti stanno parlando.
Come sempre l'errore si annida nella mancanza di duttilità.
Per quanto mi riguarda – e metto da parte lo scrittore per lasciare spazio al tecnico e all'editore – l'unica necessità di un testo, affinché i dialoghi possano generare il campanello d'allarme di cui sopra è la coerenza.
Nonostante preferisca l'utilizzo dei “caporali” (e sulle norme redazionali della Casa editrice è ben specificato), quando un manoscritto presenta una diversa soluzione per la gestione dei dialoghi, mantenendone la coerenza dalla prima all'ultima pagina e risultando comprensibile e snella, mi guardo bene dall'imporre una revisione tecnica che porterebbe solo a errori di conversione e mal di pancia per l'autore o l'editor.
Stessa cosa vale per gli incisi, ovvero quelle parole o frasi che si inseriscono per spezzare una battuta: la Casa editrice ha le sue regole, ma se il manoscritto presenta una diversa struttura altrettanto funzionale, imporre dei cambiamenti sarebbe solo uno sfoggio di potere del tutto fine a se stesso.
Partiamo dal presupposto che il lettore difficilmente effettua dei raffronti tecnico-stilistici sulla composizione tipografica dei libri di uno stesso editore, quindi se ogni singolo volume è coerente con se stesso e rende fluida la lettura, oltre a generare picchi d'attenzione movimentando la trama con dialoghi serrati o rilassati a seconda del momento narrativo, siamo di fronte a un libro ben scritto e ben pubblicato.
Quindi la risposta alle due domande iniziali è la seguente: i dialoghi sono essenziali, ma per far sì che risultino fluidi e accattivanti servono due cose. Un autore capace di agire sui propri istinti rivoluzionari addomesticando ogni forma troppo creativa a beneficio del lettore e un editore senza il complesso del Quarto Reich, in grado di riconoscere la coerenza in un testo e non esigere per forza la fottutissima libbra di carne.
Tutto il resto è accademia.
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